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Van Helsing – Dracula May Cry

RetroGaming è una rubrica che guarda al passato dei videogiochi per rapportarlo al presente – in altre parole, pesco un vecchio gioco che conosco da più o meno tempo e cerco di analizzarlo sia inquadrandolo nella sua epoca storica sia mettendomi nei panni di doverlo giocare oggi come videogiocatore moderno. Esce alla domenica, con cadenza bisettimanale.

 

Un evergreen della comunità videoludica è l’idea che qualsiasi titolo imparentato con un film o in generale un altro tipo di prodotto multimediale sia orribile e solo una truffa. Se è vero che – per tutta una serie di ragioni più o meno forzate – un gioco che deve uscire in contemporanea ad un film ha serie possibilità di dimostrarsi tirato via e poco ispirato, non mancano alcuni casi a fare da eccezione alla regola.

Esatto: se speravate che avessi scelto un orribile tie-in su cui accanirmi, devo darvi una brutta delusione. Il Van Helsing uscito nel 2004 in contemporanea al blockbuster con protagonista Hugh Jackman è, suppongo per la sorpresa di molti, un gioco di tutto rispetto.

 

Il fatto è che Van Helsing, detta come va detta, è un clone di Devil May Cry – ma uno di livello discreto. Questo comporta che la formula base di gioco è stata presa in blocco dal titolo di Capcom, con tutto quello che ne consegue, e sono stati fatti solo piccoli adattamenti; Van Helsing “occidentalizza” alcuni aspetti del gameplay, e discutibilmente riesce addirittura a migliorarne altri, ma di questo parleremo più avanti.

 

DMC però i nanetti con le alabarde non ce li ha, eh? Eh?
Immagine originale qui.

 

Ora, dal versante critico ci sono tre tipi di risposte a titoli simili. Ci sono i giornalisti che si rendono conto esattamente di cosa sono, e che quindi li analizzano inquadrandoli nel loro sotto-genere. Poi ci sono tutti quelli che semplicemente non sanno di cosa stanno parlando, li giocano e vanno “a sentimento” per decidere cosa funziona e cosa non funziona. Infine, la categoria secondo me più dannosa è quella di chi capisce la derivazione del titolo e la usa come argomentazione per smontarlo, perché starebbe “copiando giochi più famosi”.

 

Su Metacritics Van Helsing per PS2 ha una media di 64/100 (comunque più alta di quello che mi aspettavo); visto che nel 2004 Devil May Cry era giusto un po’ famoso quasi tutti notano le similitudini, ma la maggior parte dei recensori che le nominano le usa per smontare il nuovo gioco.

GameChronicles, o meglio un suo redattore apparentemente sbarcato da poco sulla Terra, è l’insolita eccezione, che cade nel secondo dei tre casi da me prima elencati. Gli dà 67/100 e scrive: “È un peccato che l’esperienza finisca non appena ci si inizia a sentire carichi, e la telecamera a posizione fissa potrà funzionare nei film ma non si trasmette bene in un gameplay, soprattutto in un mondo in 3D. ” È un peccato che qualcuno che recensisce un videogioco tratto da un film riesca nell’arduo compito di non sapere come viene spesso gestita la telecamera né in un videogioco né in un film.

Tale AceGamez gli dà 60/100 e commenta: “Un clone di seconda categoria di Devil May Cry, e se è quello che cercate vi conviene guardare a Devil May Cry 2.”, giusto per non perdere occasione di essere fanboy anche quando si parla di tutt’altro.

Edge (che si dimostra sempre in prima fila quando bisogna dire stronzate) gli dà 50/100 e scrive: “Molti titoli sono collegati a Devil May Cry, ma Van Helsing si appropria di quella struttura di gioco con tale sfacciata totalità che lo si potrebbe vedere come il Great Giana Sisters di questa generazione.” [Per chi con la propria vita è andato oltre il 1987, Great Giana Sisters era un clone di Super Mario Bros. a cui secondo una leggenda metropolitana sarebbe stata intentata una causa da Nintendo, causa in realtà mai esistita.]

Boomtown gli dà 50/100 e conclude: “È poco più che un clone di un gioco con un design molto più riuscito, prodotto più come un buon modo per far acquisire rispetto ad una licenza che per creare un buon gioco di per sé.”, e giuro che non ho idea di che diavolo volesse dire.

 

Le scimitarre infuocate non c’erano nel film, o sbaglio?
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Lo so, sto divagando molto, sono a un quarto della pagina e non ho ancora detto nulla sul gioco, ma se non colgo occasione in questi articoli per fare le mie riflessioni scorbutiche sul giornalismo videoludico poi mi tocca aprire delle serie che non legge nessuno, quindi abbiate pazienza e sopportatemi ancora fino alla prossima delle immagini di spaccatura che metto lungo l’articolo per renderlo più piacevole al colpo d’occhio e non farvi fuggire immediatamente all’idea di una lettura così lunga.

 

Quello che voglio far notare è che in queste recensioni, come in migliaia di altre, non si sta apparentemente facendo la cosa base che dovrebbe per definizione esserci in una recensione: recensire il gioco. Le recensioni sono guide all’acquisto, servono a dire al cliente “il gioco è bello, compralo” oppure “fa schifo, non comprarlo”. Non sono pagine di blog in cui ci si cerca di convincere che la propria opinione su qualcosa è importante, e nel momento in cui lo diventano qualcuno non ha capito il proprio lavoro.

Se il recensore trova fastidioso che un gioco prenda delle meccaniche da un altro gioco, si lamenta perché è di un genere invece che di un altro, si sente offeso perché crede che “si poteva fare di più” e via dicendo sono sonori cazzi suoi: tutto questo non ha e non può avere nessun tipo di ripercussione sulla qualità, e quindi l’apprezzabilità, effettiva del gioco. Quello che in pratica si fa ogni volta che in una recensione si argomenta in modo simile è dire al lettore “non comprarlo perché esiste un altro gioco molto simile, ma uscito prima”, oppure “non comprarlo perché questo sistema di controlli è meno bello di quell’altro”, o ancora “non comprarlo perché secondo me poteva essere migliore”. In sostanza è come dire “non mangiare quel gelato, è abbastanza buono, ma secondo me potrebbe essere anche meglio”, oppure “quel televisore ha una buona definizione e dei buoni colori, ma non è certo il primo ad averli, quindi fossi in te lascierei stare”. Semplicemente ipotesi e tesi sono scollegate, manca un enorme passaggio logico a legare le due metà della frase, e non ce ne accorgiamo solo perché siamo abituati a vivere in una cultura (videoludica, in particolare online) in cui qualsiasi cosa vediamo scritta ha senso solo perché è stata scritta.

Se tutto questo è follia già di per sé, all’atto pratico si rivela molto, molto peggio. Perché tutte queste argomentazioni non traspaiono neppure nel risultato finale, quello che resta è il voto. E a quel punto qualcuno che passa per un sito aggregatore come Metacritic e non ha voglia di controllare il contenuto di tutte le recensioni una per una si trova con un “non comprarlo, fidati, lo dicono tutti” (in questo caso va di poco meglio, ma non è il caso di tantissimi altri giochi), in cui in realtà buona parte delle argomentazioni sono come quelle che ho appena esemplificato.

Per farla breve, se questo gioco fosse uscito identico a com’è ma non si fosse chiamato Van Helsing – o se meglio ancora assieme ad esso non fosse uscito un film chiamato Van Helsing – sospetto che di media avrebbe almeno 10 punti in più di quelli che ha ora.

 

Sospetto anche che questi screenshot siano materiale promozionale pre-lancio, perché l’impressione generale degli ambienti è un po’ diversa dalla mia versione. E, curiosamente, questi mi fanno un effetto peggiore in termini di accostamenti dei colori.
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Ora che mi sento in pace con me stesso posso finalmente parlarvi di Van Helsing. Dunque, come ho già detto è, in sostanza, un clone di Devil May Cry, quindi dove non specifico oltre (struttura delle missioni, acquisti e potenziamenti disponibili, movimento, interazioni con l’ambiente…) fate conto che sia, letteralmente, identico al titolo di Capcom.

 

La prima differenza evidente è la logica dietro la distribuzione delle armi. In Van Helsing sono preponderanti, sia per numero che per uso, quelle da fuoco (ce ne sono 5, più una bonus) a discapito di quelle da corpo a corpo (solo 2); ma non solo, perché sono anche tutte “obbligatorie” da trovare, visto che in ogni livello in cui ce n’è una bisogna usarla sull’ambiente in qualche modo per poter proseguire. Ultima grossa differenza nell’arsenale, che ancora una volta ha effetti sia sul sistema di combattimento che sulla struttura del gioco, è la possibilità/necessità di trovare per ciascuna arma un potenziamento che permetta di utilizzarla nella versione potenziata, sempre fondamentale anche per proseguire nella partita. Il cambio d’armi d’altra parte è stato reso molto più comodo e dinamico, e non obbliga più ad aprire il menu principale.

Questo si ricollega alla gestione del “potere” di Van Helsing. Se Dante può trasformarsi in demone e cambiare completamente modo di giocare, la seconda barra nell’interfaccia del cacciatore di vampiri lo fa unicamente passare, per l’appunto, alla funzione secondaria delle varie armi: quelle da tiro di solito aumentano di danno e di rateo – ma un paio cambiano completamente tipo di attacco -, mentre quelle da corpo a corpo fanno solo più male. A movimentare e cambiare ulteriormente i combattimenti è l’introduzione di alcune “cariche” speciali che si accumulano uccidendo più avversari in sequenza e che possono essere rilasciate per eliminare all’istante un nemico comune o per ferire pesantemente un boss.

Ultima, ma decisamente non ultima, alterazione di rilievo nei controlli è la presenza del rampino, che Van Helsing usa sia per gli spostamenti che per combattere. Mirando ad un nemico lo si aggancia e trascina a sé (o su esseri molto grossi si viene trascinati contro di loro), e spesso nell’ambiente ci sono punti a cui ci si può agganciare per spostarsi automaticamente o dondolare; alcuni sono ben visibili ed obbligatori, ma altri, attentamente nascosti dal piazzamento fisso della telecamera, sono individuabili solo perché quando ci si trova nel punto giusto per l’interazione un piccolo simbolo nell’interfaccia si colora di rosso.

 

Lo sapevate che nel “Frankenstein” originale di Mary Shelley il mostro non viene fatto nascere con l’aiuto elettricità, ma bastano la cucitura e le “conoscienze mediche” di Frankenstein? Non ci sono neanche nessun castello, nessun Igor e nessuna folla inferocita alla fine. O nessun Van Helsing australiano armato di scimitarre, proprio per mettere i puntini sulle i.
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Il sistema di combattimento è bene o male come quello di Devil May Cry, ma qui ha tempi e tattiche sue. Le schivate sono fondamentali, e in genere la tattica da preferire è tenersi a debita distanza per poter sparare finché l’altro non muore. Ci sono comuque avversari immuni o quasi alle armi da tiro (o ad alcune di esse), quindi non basta usare a ripetizione il fucile più pesante contro tutto.

La telecamera durante i combattimenti produce uno strano movimento spontaneo, per cui ad ogni colpo in corpo a corpo mandato a segno la visuale si restringe su Van Helsing; è strano, ma è curiosamente piacevole da vedere. La presenza dell’aggancio automatico del bersaglio rende innocuo (almeno durante i combattimenti) anche il fatto che il giocatore non ha alcuna capacità di controllo sulla telecamera.

In generale i controlli sono precisi e abbastanza intuitivi, e gli ambienti sono quasi sempre immediati da leggere, ma non per questo non riescono a nascondere piccoli segreti in qua e là.

 

I “problemi” oggettivi di Van Helsing sono tre, tutti – secondo me – abbastanza relativi e superabili.

Il primo, segnalato (un po’ esagerandolo) anche da diversi recensori, è la longevità. Esattamente come in Devil May Cry la campagna è abbastanza corta; contando solo il tempo di giocato, quindi senza filmati, menu, caricamenti (e sospetto anche tentativi falliti prima di un game over), a finirlo una volta senza particolare fretta ci ho messo sulle 3 ore e mezza, che con anche tutto quello che non è stato conteggiato dal timer di gioco direi si traducano in circa 4-5 ore reali. Lo chiamo “problema relativo” intanto perché il genere stesso prevede di solito giochi corti, anche se magari non così corti, e in secondo luogo perché è disponibile l’opzione Nuova partita +, che unita ad un nuovo livello di difficoltà e alla possibilità di riprendere la ricerca degli extra da dove la si era lasciata offre una seconda run ancora discretamente movimentata e originale.

 

La meccanica del rampino è strana. Non sono sicuro se nel film c’è qualcosa di simile – anche se mi pare di sì – comunque la sua implementazione nel gioco ricorda quella quasi identica nel precedente Bloodrayne, altro titolo a tema vampiri. Coincidenze? Non secondo Adam Kadmon.
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Il secondo difetto è che in certi momenti ci si può perdere, ovvero non sapere più esattamente dove si dovrebbe andare o cosa fare. Questo è assolutamente “relativo” come minimo perché la stessa cosa accade in Devil May Cry, ma lì moltiplicata per dieci, e perché di fatto in titoli simili l’esplorazione e l’andare un po’ per tentativi sono parte del livello di sfida e degli enigmi. Giusto in un unico punto le cose sono inutilmente criptiche, ma d’altra parte si è chiusi in una piccola stanza e a furia di provare ad interagire con tutto se ne esce.

Il terzo, che è davvero un problema nell’ottica della valutazione di Van Helsing in quanto videogioco, è l’aspetto narrativo. Il fatto non è che sia stata ripresa la trama del film – anche discretamente modificata, come succede spesso in questi giochi -, ma che è evidente che a raccontarla bene quella storia non ci si sia neanche provato. I filmati sono sempre brevissimi, con il minimo indispensabile per far capire cosa sta succedendo e basta: il gioco sembra dare per scontata la storia, senza preoccuparsi minimamente di intavolare una narrazione decente coi tempi giusti e limitandosi a ricordare al giocatore bene o male perché quel che succede sta succedendo. È questo che manca davvero a Van Helsing per dargli il mordente che ci si aspetterebbe da un titolo simile e che come gioco lo fa apparire un po’ spoglio e “senz’anima”. Il doppiaggio italiano, giusto per far piovere sul bagnato, è abbastanza scarsino, soprattutto per via di una voce protagonista decisamente troppo apatica e una sincronizzazione dei labbiali da condanna penale.

 

Sta di fatto che tutto il resto è assolutamente ok, anzi, oserei dire piuttosto curato. Il level design è più che discreto, il reparto grafico è buono sia sotto l’aspetto artistico che quello tecnico (per un gioco per PS2, sia chiaro), il gameplay in sé e per sé funziona e non annoia, si incontra una discreta varietà di nemici e di boss che richiedono tattiche diverse per essere eliminati e c’è la giusta quantità di extra e possibilità di esplorazione per riempire il tempo tra un combattimento e l’altro.

 

Ha una gatling nell’inventario. Tira fuori due spade.
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Giusto per buttare giù qualche curiosità e far capire che non stiamo parlando di un titolo creato completamente dritto per dritto…

Ogni volta che Van Helsing viene colpito molto forte perde il cappello, che si può successivamente raccogliere da terra; c’è un bonus alla fine di ogni livello se lo si completa con ancora il cappello addosso.

Trovando degli oggetti a forma di uova nascosti e posizionandoli su alcuni piedistalli sparsi per il gioco si sbloccano delle “sfide” extra molto in tono con le Sfide degli Dei di God of War. Sempre nascosti sono dei veri e propri cheat, attivabili dal menu una volta trovati, che cambiano in modi più o meno stupidi l’aspetto di Van Helsing, del mondo e dei nemici.

Impostando poi la difficoltà a Difficile, disponibile solo dopo aver completato il gioco a Normale, vi troverete davanti ad una sfida parecchio impegnativa anche giocando una Nuova partita + e a qualcosa al limite dell’impossibile con una partita da zero. Non solo gli avversari hanno molta più vita e voi ne perdete molto più in fretta, ma in più zone nemici di tipi facilmente gestibili, pensati normalmente per farvi fare pratica col gioco, vengono sostituiti da tipologie più ostiche e aggressive.

 

Concludendo, Van Helsing non è un gran gioco, ma è senza dubbio un buon gioco. È uscito su PS2 e su Xbox, e se lo trovate ad una manciata di euro e vi va di provare un titolo in stile Devil May Cry dal sapore un po’ meno giapponese penso potreste rimanere piacevolmente sorpresi.