Benvenuti in questo speciale natalizio targato GameBack. Dal 1° al 24 dicembre, come se fosse una sorta di “calendario dell’avvento”, pubblicheremo ogni due giorni una puntata di questa piccola rubrica,  in cui ogni redattore di GameBack, a turno, parlerà del “videogioco che gli ha cambiato la vita” e ha acceso in lui la passione per l’arte videoludica.
Vi ricordiamo, inoltre, di lasciare un commento inerente all’articolo, in modo da poter partecipare al contest natalizio che stiamo organizzando sulla nostra pagina Facebook e la nostra stanza su Ludomedia (le regole del contest si trovano qui).

Noi videogiocatori siamo una specie a parte, amiamo vivere mille avventure, salvare i mondi, eliminare i cattivi, tuffarci a capofitto in situazioni bizzarre e surreali, ognuno ha i suoi gusti; ma se c’è una cosa che abbiamo in comune è questa: almeno una volta, nella vita video-ludica di ognuno di noi, c’è un gioco, un piccolo gioiello, che ha cambiato totalmente il nostro modo di vedere questa splendida passione.

Oggi vi narrerò il plot twist della mia carriera da gamer, il momento in cui tutto è cambiato, in bene o in male, non saprei, ai posteri l’ardua sentenza. Ero giovane all’epoca, nel bel mezzo del primo anno di Liceo, e nonostante amassi già videogiocare, mi limitavo molto ai titoli mainstream di quei tempi, armato di PS1 mi divertivo a giocare a grandi classici come Final Fantasy, Spyro, Crash Bandicoot e il tanto amato Medievil; se proprio vogliamo dirla tutta il mio titolo preferito era Tombi, ma in una settimana tutto cambiò.

Ai tempi, nonostante la giovane età, ero un fumatore, non incallito sia chiaro, ma non era raro incontrarmi di mattina presto davanti scuola, a racimolare 1100 lire per comprare un pacchetto di Amadis da 10 (sigarette davvero pessime), eravamo ancora una specie rara di fronte alle scuole, e fù durante una di queste mattine mentre tutti si accingevano ad entrare che trovai un ragazzo, all’epoca perfetto sconosciuto, che come me, stava impazzendo per raggiungere la stessa identica cifra. Unimmo insieme le forze, decidemmo di posticipare l’ingresso a scuola, ci dividemmo le 10 sigarette e ci mettemmo a parlare.

Avevamo una passione in comune, i videogiochi, ma lui, a differenza mia, era un collezionista. Il giorno dopo reincontrai questa persona, e mi diede alcuni CD dicendomi, “questi sono un regalo, giocaci e dimmi che ne pensi”. Tra questi dischi c’erano 2 giochi originali (Arcanum cd d’installazione e di gioco) e 3 masterizzati (Fallout 1, Fallout 2 e Morrowind). Arrivato a casa iniziai subito a installare il gioco che lui mi aveva più strettamente consigliato, parlandomi di assoluta libertà di scelta, di un’enorme mappa da visitare e di strane razze di Elfi Oscuri, e quando feci partire per la prima volta TES: Morrowind sul mio PC, cambiò tutto.

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Apriamo una partentesi sulla saga, The elder scroll, è una IP della software house Bethesda Softwork iniziata nel 1994 con TES: Arena, una serie che nel susseguirsi dei capitoli ha avuto come capisaldi, la visuale in prima persona, la libertà di esplorazione totale, e la possibilità di costruire il proprio personaggio come si vuole. Mentre nei primi due capitoli della saga (il succitato Arena e il suo seguito Daggerfall) il mondo di gioco era enorme e generato proceduralmente (infatti era possibile esplorare tutta Tamriel) da Morrowind in poi, con l’avvento della grafica 3D, Bethesda decise di creare mondi più “piccoli” ma allo stesso tempo completamente esplorabili e ricchi di dungeon e missioni.

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Adesso, immaginate un giovane videogiocatore, abituato ai gameplay rapidi e classici, aprire gli occhi in una nave prigionieri armato di mazza (non l’arma, proprio un pezzo di legno) e lasciato in un piccolo porticciolo con il solo nome di un contatto a Balmora; esatto, solo il nome e la città dove trovarlo, nessuna minimappa segnaletica, tutto quello che si poteva fare era chiedere informazioni agli abitanti di Seyda Need (il porticciolo) e sperare di prendere la giusta direzione.

Con le lacrime agli occhi per la gioia, sono bastati pochi e significativi minuti per capire l’enorme potenziale dietro quel titolo, non sapere dove andare, cercare informazioni, perdere tempo a uccidere dei granchi con una mazza per potermi allenare abbastanza da rendermi in grado di affrontare la strada per Balmora. Tutte sensazioni che è difficile trovare nei giorni moderni (compresi i seppur bellissimi seguiti Oblivion e Skyrim), insomma un’avventura tutta da assaporare, da esplorare, in un ambiente come l’isola di Vvardenfell, costellata da deserti, paludi e zone vulcaniche, enorme per lo standard dell’epoca; e quel senso di enormità era dato anche dalla presenza di pochissimi mezzi di trasporto veloce e la necessità di dover camminare per gran parte dell’avventura.

Il proprio personaggio, prigioniero appena liberato per ordine dell’imperatore, cresce con il giocatore, che con le proprie azioni lo plasma a suo piacimento, puoi diventare un potentissimo guerriero in grado di usare anche le esotiche armi dell’isola di Morrowind, o essere un temibile arcimago, capace di creare per se incantesimi devastanti, o fondere le due cose imparando a forgiare armi e armature magiche talmente potenti da superare qualsiasi ostacolo (col tempo e la dedizione si potevano creare anche artefatti incredibili, come stivali che ti permettono di volare in modo permanente ogni volta che li indossi); in più cercando missioni, era possibile crearsi un nome, scalare i ranghi delle gilde dei guerrieri, dei maghi o dei ladri (a volte alcune precludevano le altre) oppure diventare campione dell’arena, o immischiarsi nella guerra tra le tre casate nobiliari dell’isola, scegliendo quella da seguire, in cambio di denaro e di una dimora di tutto rispetto.

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Insomma centinaia di quest, segreti, scorci di mondo da esplorare si traducono facilmente in altrettante ore di divertimento. Ora non sono qui per fare un esame tecnico del gioco, ma per ricordare con voi come mi ha cambiato, come ha cambiato il mio modo di vedere il gioco di ruolo, e di come, da allora, ancora cerco un’esperienza in grado di darmi le stesse emozioni che quell’unico ammasso di dati è riuscito a regalarmi.

Da allora sono rimasto in contatto col mio amico, siamo cresciuti, ognuno di noi ha preso strade diverse, ma è sempre bello, davanti a una buona birra, sederci e ricordare i tempi in cui intrepidi avventurieri esploravano quel magico mondo, in barba alla scuola, alle sigarette e alle migliaia di frecce nelle ginocchia.

Matteo
Nato in una città piovosa, ha cominciato col suo commodore 64 a passare le giornate per far partire un nastro magnetico. Col tempo ha ampliato i suoi orizzonti, divorando tutto ciò che è videogioco.

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