Competitivi ladri di emozioni

La parola ai giocatori è una particolare rubrica in cui riporto commenti scritti da utenti di forum o siti di videogiochi su vari argomenti nel corso del tempo; per maggiori informazioni, leggete l’introduzione della prima puntata. Esce ogni domenica, ovviamente qui su GameBack.it.

 

 

Il senso della competizione, da Destructoid.com

In una discussione sul fatto che più piattaforme facciano bene al mercato perché creano competizione, un utente precisa la parte del ragionamento che tutti si dimenticano sempre: se un salva sempre tutti, indipendentemente da qualsiasi cosa facciano, si va a perdere alla base lo scopo dell’averla, quella competizione.

 

Il commento:

Le compagnie che attuano comportamenti contro i consumatori non dovrebbero restare in giro per il solo gusto di mantenere viva la competizione. Sono idiozie come questa che hanno portato l’industria videoludica dov’è ora, è stata l’indulgenza dei giocatori.

 

Il giusto equilibrio tra tolleranza e rigidità del mercato, di fatto, lo decidono gli acquirenti. Quindi, direi proprio di sì.

 

tretton harris

E il buon Jack ormai è in pensione, altrimenti qui starebbero volando coltellate nelle gengive.

 

 

Capire gli hater, da YouTube.com

Quando Thief è stato annunciato, e poi man mano che si è scoperto più su di esso, sempre più persone hanno iniziato a lamentarsi per come si era deciso di impostarlo. Si è arrivati ad un punto in cui sotto ogni video relativo al gioco pubblicato su YouTube si creava nel giro di qualche ora un fiume di critiche, insulti e quant’altro, spesso estrapolando minuscoli frammenti di quanto visto, persino dalle cinematiche, pur di avere qualcosa contro cui scagliarsi.

Non ci sono solo persone che attaccano Thief, però. Qualcuno di opinione contraria prova a far sentire la propria voce. Un utente in particolare coglie perfettamente dove sta il problema: non in Thief, di cui peraltro si sapeva ancora davvero poco, ma in come ragionano quelli che lo attaccano ad ogni occasione.

 

Il commento:

Se non ne venisse sviluppato affatto uno nuovo [di Thief], milioni di fan di Thief si lamenterebbero per quello per secoli… Per caso questo gioco sottrarrà qualcosa ai primi tre? Oh, e ancora più importante, quello che sarebbe successo se avessero fatto un gioco ispirato a Thief ma non con lo stesso nome è che gli stessi milioni avrebbero protestato “stanno rubando da Thief!” “Thief ha fatto quelle stesse cose tipo 15 anni fa!”. Il tuo commento [quello dell’utente a cui risponde] non è l’unico a cui avrei potuto rispondere con questa frase, ma dovevo metterla da qualche parte.

[commenti di altri utenti]

Già: non c’è nessuno tra gli “hater anzitempo” che sarebbe felice di venire sorpreso da qualcosa, quando il gioco uscirà? Non c’è per niente il desiderio di aspettare finché non lo avrete visto da voi? Ora che ci penso, questi tizi sono come delle principessine viziate. “NO! NON VOGLIO UNA TORTA DI COMPLEANNO BLU! LA VOGLIO ROSA!!! CON LA CREMA INTORNO, PERCHÉ ERA COSÌ L’ANNO SCORSO! IL BLU È STUPIDO! VI ODIO TUTTI!”

[commenti di altri utenti]

Va bene, non so quanti paragoni siano stati fatti tra i vari giochi, ma possiamo essere sicuri che ci sarà sempre qualcuno col dente avvelenato che aspetta che qualche compagnia crei un gioco che assomiglia alla sua vecchia serie preferita, ma che non gli assomiglia abbastanza. E che andrà a dire con gli occhi sbarrati ai nuovi arrivati che si ammassano in giro: “Sul serio, pensate che non sia mai stato fatto prima?!”. Sono abbastanza convinto che questo succeda.

 

Internet non è cattivo, è che lo disegnano così.

 

thief dialogue

E ora che hanno annunciato un film su Thief preparate letteralmente le barricate.

 

 

Riflessione sui “giochi autobiografici”, da Eurogamer.net

The Novelist è uno di quei giochi creati sostanzialmente da una sola persona che vogliono comunicare un messaggio strettamente legato alla vita dell’autore. Sono titoli particolari, e un utente cerca di spiegare il perché possono funzionare perfettamente come fallire terribilmente in base alla persona che li gioca.

 

Il commento:

Non riesco a non pensare che “questo tipo di giochi” (che suppongo sia una variante moderna e più fisica di “E se…?”) si porti dietro un problema alla radice, ovvero che sia così indissolubilmente legato all’esperienza personale di chi li scrive, il che a sua volta, ovviamente, chiede al giocatore di empatizzare tramite forme d’ansia che potrebbero risultare più che altro da dove si è cresciuti e basta.

Per me è stato praticamente impossibile sentirmi coinvolto giocando a Gone Home, ma più ci penso meno credo sia per via del gioco in sé, quanto piuttosto perché non si contestualizzi bene nella mia giovinezza e più in generale nella mia vita (sono norvegese). Voglio dire, ci sono alcuni momenti toccanti che capisco, ma avevo degli amici che hanno dichiarato di essere gay a metà anni ’90, e la cosa è stata accettata con tale tranquillità da tutti che la fonte principale di empatia nel gioco mi obbliga a chiedermi dove sia il problema. Quello che mi rimane veramente è una generica famiglia da serie televisiva con genitori di una chiusezza intollerabile e una storia d’amore tra ragazzi perfettamente normale, ma complicata da troppo “fattore gioco” (trova le tre stanze segrete per trovare la combinazione dell’armadieto per trovare la chiave per la cantina per trovare oh cielo, perché lo sto facendo).

La stessa cosa è successa con Depression Quest di Zoe Quinn, un gioco che ho trovato talmente troppo elaborato e macchinoso (quella musica!) che non ho retto i primi paragrafi, lasciamo perdere tutto il resto. Questo detto da qualcuno che ha convissuto con una seria depressione per molto tempo, motivo per cui mi sono sorpreso di non ritrovarmici per niente.

Ma, leggendo il punto di vista di altri, posso solo accettare il fatto che il gioco “non fa per me”, suppongo; e tutto quello che sento su The Novelist mi fa prefigurare lo stesso. Questi sono giochi per un pubblico incredibilmente specifico, allo stesso modo, ad esempio, di un genere di libri che se la cava solo perché ce ne sono così maledettamente tanti. Abbiamo solo una manciata di giochi basati su storie personali di questo tipo a cui guardare. È impossibile pensare che vengano tutti apprezzati da tutti, in ogni angolo del mondo.

 

La fratturazione del mercato e la nascita di micro-sviluppatori produce, tra le altre cose, anche questo fenomeno. Che ha risvolti nel bene e nel male, come tutto.

 

facade

E ancora oggi non ho ben capito a quale dei due appartenga Façade.

 

 

CoD Ghosts può davvero essere un gioco “competitivo”?, da Multiplayer.it

Tempo fa un grosso publisher, credo Microsoft (ma poco importa), stava sponsorizzando un torneo di CoD: Ghosts, e qualcuno si chiese non del tutto a torto come funzionasse la “competizione” in un gioco strutturato com’è strutturato.

 

Il commento (originale in italiano, ho solo messo a posto maiuscole e punteggiatura per avere la miglior comprensione possibile):

Non vorrei creare una bufera di critiche ma vorrei far notare un fatto (che sicuramente tutti avranno notato): come ben sapete su CoD Ghost è possibile giocare il multiplayer offline a schermo condiviso utilizzando come avversari i bot, e ovviamente un amico al proprio fianco. Non avendo il mio amico la possibilità di una connessione decente, siamo rimasti piacevolmente sorpresi da questa modalità, che ci permette di passare qualche oretta in compagnia dopo il lavoro senza pensare a tutti gli stress dell’online. Quindi proviamo la suddetta modalità, settiamo la difficoltà dei bot ad un livello ragionevole e iniziamo a giocare. E subito rimaniamo spiazzati: I bot camperano. I programmatori hanno ovviamente programmato i bot nel modo tatticamente più vantaggioso per il loro gioco. E come si gioca il loro gioco? Con tattiche di squadra, cooperatività, strategia e abilità? No, camperando. E io mi chiedo, quindi ritornando alla notizia dell’articolo, come può essere un gioco competitivo e papabile per un torneo dove la tattica , le mappe, e il gameplay in sé ruota[no] intorno al stare fermi, aspettare l’avversario, fare una serie di uccisioni, avere il cane e vincere la partita in tal modo? Scusate il post lungo ma in tutti questi anni in cui videogioco non ho mai visto dei bot… camperare. Che i programmatori si siano fatti aiutare dai propri figli per il comportamento dei bot?

 

D’altra parte, se esisono i tornei di morra ufficializzati dal CONI…

 

pro gamer

Non che c’entri con il commento, ma il degrado mi mette sempre di buon umore.

 

 

L’élite videoludica, da Eurogamer.net

Che dir si voglia, internet spinge diverse persone ad assumere un atteggiamento élitario, nel senso che dopo un po’ viene spontaneo dare per scontato che le idee che circolano in un determinato ambiente che si frequenta siano più valide a prescindere di quello che viene da fuori. I risvolti di questo fenomeno sono tantissimi, ma forse uno dei più fastidiosi (e di cui ho già ampiamento parlato, ahem) è quello di portare alla creazione di miti su cosa “vada bene” e cosa no, spesso parlando di giochi che neanche si ha mai giocato.

Quantic Dream è una compagnia che da sempre porta avanti un proprio modello di gioco unico, esplorando una particolare ibridazione tra film e videogiochi. I risultati possono piaciere o non piaciere, ovviamente. Ma c’è una differenza tra “piaciere” e “snobbare”, dove facilmente si sfocia su internet.

 

Il commento:

Francamente, criticare i giochi di [David] Cage è solo un altro scadente cliché dell’industria videoludica, proprio come offendere tutti i Call of Duty usciti dopo il primo Modern Warfare.

Fahrenheit, Heavy Rain e Beyond sono tutti bei giochi.

Certe persone dovrebbe smetterla di atteggiarsi come se i loro gusti fossero tanto di classe che gli unici titoli a cui giocano fossero capolavori come Grim Fandango, Planescape: Torment o Zero Escape.

 

Non si può costruire una critica ragionata e sistemica in base a quello che si è letto un pomeriggio su un forum. Sarebbe carino che più gente capisse la differenza tra opinione e analisi.

 

david cage emotions

C’è anche differenza tra ironia e accanimento ossessivo. Sta a ciascuno capire dove finisca una e inizi l’altro.

 

 

Ad ogni modo, anche per questa domenica è tutto. Alla prossima.

Lorenzo Forini
Sono nato a Bologna nel 1993, videogioco da sempre, e da sempre mi ha affascinato l'idea di andare oltre al solo giocare, di cercare di capire cosa c'è nascosto in ogni titolo dietro al sipario più immediato da cogliere. Se i videogiochi sono una forma d'arte, forse è il caso di iniziare a studiarli davvero come tali.

Lascia un commento